Gli studenti del quartiere e il futuro che vorrebbero

Impact Hub Firenze ha aperto le porte alle classi degli Istituti Superiori del quartiere. Un primo racconto dell’esperienza di ascolto reciproco e collaborazione.

 

Oltre ai racconti mediatici sull’adolescenza, oltre ai pregiudizi diffusi, basati anche su riferimenti culturali che dire ambigui è dire poco (Dark Polo Gang in testa alle classifiche), incontrare davvero le persone è sempre un viaggio e la sua unica regola è: “non tornare come sei partito. Torna diverso”.

E noi siamo tornati diversi da questi primi incontri con i ragazzi degli Istituti Superiori del Quartiere 5, che, grazie al progetto Sistema Quartiere, sono entrati negli spazi di Impact Hub per fare un percorso insieme, di conoscenza reciproca e di formazione.

Stiamo parlando in particolare delle prime 10 classi (altre 20 parteciperanno nell’a.a. 2018/2019) beneficiarie di un progetto, realizzato in partnership con forEdA e finanziato dalla Regione Toscana tra gli interventi a supporto delle azioni di alternanza scuola lavoro. Classi quarte e quinte degli Istituti Tecnici e Professionali, come l’I.S.I.S Leonardo da Vinci (capofila del progetto), l’Istituto Tecnico Agrario e l’I.I.S Sassetti Peruzzi, a cui abbiamo proposto una serie di attività finalizzate allo sviluppo delle competenze trasversali, quelle che la Commissione Europea pone al centro dell’attenzione di tutti i soggetti responsabili del passaggio dalla formazione al lavoro: la capacità di apprendimento e lo spirito d’iniziativa, in primis, che consentono di affrontare percorsi professionali diversificati e imprevedibili, tipici del mondo di oggi.

Ai momenti di teoria, pochi e brevi, si sono quindi alternati esercizi sulle soft skills; attività di rappresentazione del difficile passaggio dalla scuola al lavoro ispirate alla Theory U e altre tese a sviluppare le capacità progettuali, sia dei singoli che del gruppo classe. Infine, non potevano mancare gli incontri con imprenditori e giovani professionisti, membri di Impact Hub Firenze, che, attraverso le proprie storie, hanno dato un volto a quelle dinamiche prima solo astratte.

I ragazzi hanno reagito con un livello di interesse e di proattività per niente scontato e hanno sfruttato questo spazio di sperimentazione anche per divertirsi, il ché non guasta mai. Sia perché sono state proposte loro attività diverse da quelle che tipicamente vengono svolte a scuola, sia perché lo spaccato di mondo rappresentato da Impact Hub e dai suoi 200 membri, era loro sconosciuto, nonostante la vicinanza geografica. In alcuni casi gli studenti potevano addirittura vedere Hub dalla finestra della propria classe, ma la ferrovia nel mezzo bastava a separare i due mondi! Proprio su queste basi è stato pensato il progetto Sistema Quartiere: mettere in connessione, in ottica di sinergia, i soggetti di una stessa area urbana.

Al di là della bella esperienza reciproca, il percorso fatto insieme è stata una grande opportunità per noi di Impact Hub e ci sembra importante condividere quanto appreso anche con chi non ha assistito direttamente alle attività. Ci stiamo rendendo conto, infatti, che gli spazi di Rifredi dove lavoriamo ogni giorno non sono solo spazi di coworking, ma sempre di più luoghi di apprendimento, per tutti: dal professionista esperto nel proprio settore che, partecipando alle iniziative e interagendo con la community, si apre a nuovi approcci, fino al coworker timido che piano piano diventa un elemento importante per la community, passando attraverso altri soggetti che vivono Impact Hub grazie a progetti di varia natura: studenti, imprenditori sociali, rappresentanti del terzo settore, ma anche tutti gli stakeholder esterni, siano essi istituzionali o meno. Ci rendiamo conto che l’esperienza di Impact Hub è un’esperienza di apprendimento.

Le conoscenze e le competenze che vengono così acquisite hanno tanto più impatto quanto più sono manifeste, ovvero quanto più i soggetti ne sono consapevoli.

Per questo crediamo che abbia valore condividere pubblicamente, noi per primi, che cosa stiamo imparando.

Ecco, in 5 punti, ciò che ci portiamo a casa da questo primo round di Sistema Quartiere.

 

1. Le classi, fuori dalle mura della scuola, cambiano

Prima di incontrare gli studenti, dobbiamo ammettere che le aspettative dei facilitatori coinvolti (stiamo parlando di educatori esperti, con almeno 8 anni di esperienza) erano abbastanza basse: spesso si erano trovati in contesti molto faticosi, con una serie di aneddoti sconcertanti di cose che accadono a scuola che potremmo raccontare (ma questa non è la sede).

Ebbene, queste aspettative sono state tradite, in positivo. Abbiamo assistito ad un fenomeno di “svestizione”: come se i ragazzi spogliandosi dei soliti vestiti che, più o meno volontariamente si mettono addosso ogni giorno, si trovassero in un territorio neutro a dover scegliere quale vestito indossare, non per forza il solito.

Insomma, uscire dalle mura scolastiche ed entrare negli spazi fisici di Impact Hub è stato certamente un elemento che ha favorito il non replicarsi di alcune dinamiche di classe, che portano spesso gli studenti a non essere interessati, di default, a ciò che viene loro proposto.

 

2. Può succedere che in cattedra sia seduta la voce del cinismo

Tra le attività proposte alle classi ce n’erano alcune finalizzate a sviluppare la capacità di ascolto, inteso come ascolto di se stessi, degli altri e dell’ambiente che ci circonda.

La Theory U suggerisce che, per raggiungere gradualmente un livello di ascolto sempre più profondo, è necessario sospendere una serie di “voci” che tipicamente invadono i nostri pensieri: la voce del giudizio, la voce del cinismo e quella della paura.

levels of listening

 

Solo quando riusciamo a non dare spazio a queste voci, e rispettivamente aprire la mente, il cuore e la volontà, riusciamo davvero ad ascoltare. Il livello più profondo di ascolto, infatti, quello generativo, si realizza quando siamo capaci di connetterci alle più elevate possibilità future che possono emergere.

Ci rendiamo conto che non è banale affrontare questi temi con i ragazzi, ma ci ha sorpreso molto, da un lato la loro reazione generale e, dall’altro, quella di un professore in particolare.

I ragazzi hanno da subito alimentato un dibattito sul fatto di non dare mai troppa importanza all’ascolto, di non stare mai normalmente davvero in ascolto. C’erano ragazzi a cui brillavano gli occhi ed era come se quei termini appartenessero ad un linguaggio antico che loro stavano riscoprendo; qualcosa risuonava in maniera profonda dentro di loro.

Un ragazzo che il fine settimana fa l’addetto alla sicurezza in un locale notturno (il buttafuori, insomma), con postura da sdraio in spiaggia e sguardo cupo, alla fine dell’incontro, interviene dicendo: “Oh! Profe, noi siamo un po’ così, la ci vede, però insomma… queste cose sono importanti, perché non ce le insegnano a scuola?”

La risposta (forse) emerge dalla reazione di un professore, in uno degli incontri successivi.

Dunque, bisogna premettere che, da progetto, i professori avevano il semplice ruolo di tutor degli incontri, non era richiesto loro altro. In generale, sono stati quasi tutti partecipi, anche se soltanto alcuni si sono dimostrati realmente propositivi. In un caso, uno di loro è stato addirittura elemento di disturbo, non tanto perché critico nei confronti delle attività proposte, ma perché inconsapevolmente, con i suoi commenti, faceva crollare i mattoncini costruiti via via fin lì. Un esempio per capire. In un esercizio di progettazione veniva chiesto agli studenti, divisi in team, di sperimentare la tecnica delle interviste per raccogliere informazioni riguardo alla domanda di progettazione iniziale. I team poi, sulla base dei dati raccolti, andavano ad ideare possibili risposte.

Nella fase di ideazione il professore interviene dicendo: “dai ragazzi scrivete qualcosa, tanto non penserete mica che poi queste soluzioni servano davvero eh?! Non lo vedete in che paese di _ _ _ _ _ abitiamo?!”

E così in altre situazioni durante altri incontri, fino a distrarre volontariamente i ragazzi con immagini sul cellulare, corredate (pure!) di commenti maschilisti.

Se la voce del cinismo sale in cattedra, come possiamo aspettarci che gli studenti diventino i professionisti del futuro che immaginiamo, pronti ad inventare cose nuove e a reinventarsi loro stessi per primi?

 

3. Il futuro che sognano gli studenti è sorprendente

Gli studenti, prima di iniziare il percorso, hanno compilato un questionario online il cui obiettivo era indagare la loro percezione del futuro, i desideri che nutrono e i fattori che ritengono importanti per realizzarli.

Il questionario è stato compilato da 119 studenti delle classi IV e V degli Istituti Tecnici e Professionali del Quartiere 5 di Firenze. Tra questi, 107 erano maschi e 12 femmine, con un’età media di 19 anni (17 anni: 9%, 18 anni: 27%, 19 anni: 32%, 20 anni: 20%, 21 anni: 8%, 22 anni: 2%) e di nazionalità per l’88% italiana (peruviani e albanesi: 4%; marocchini e rumeni: 3%; egiziani: 2%; filippini, polacchi e argentini: 1%).

Le risposte alla domanda “quali sentimenti ed emozioni provi quando pensi al tuo futuro?” sono state conteggiate e rappresentate attraverso la seguente word cloud, dove la grandezza delle parole è proporzionale al numero di volte che queste compaiono.

 

La stessa cosa abbiamo fatto con le risposte alla domanda “come descriveresti, in un tweet (180 caratteri), il tuo “miglior futuro possibile”?”

come descriveresti, in un tweet (180 caratteri), il tuo "miglior futuro possibile"?

Il risultato è abbastanza sorprendente perché non rispecchia affatto la narrativa abituale sugli adolescenti che compare in giornali, tv e web.

Il miglior futuro auspicato è un futuro famiglia-centrico, come se questo traguardo fosse un desiderio profondo e diffuso. Le altre parole chiave toccano la qualità della vita, le passioni, la bellezza, la possibilità di girare il mondo, di avere una bella casa.

Riportiamo di seguito alcune frasi significative:

“Avere il lavoro che desidero, che mi renda felice e mi faccia svegliare la mattina con il sorriso sapendo che farò qualcosa che mi piace.”

“Il mio miglior futuro possibile lo immagino con una famiglia molto unita, che stia bene sia economicamente che di salute e con un lavoro che non sia troppo stressante.”

“Orgoglioso di quel che faccio, e che lo sia anche la mia famiglia.”

 

4. Quel futuro dipende da loro

Alla domanda a scelta multipla “quali sono i fattori più importanti che ti possono aiutare a realizzare questo futuro?” le opzioni più selezionate sono state: impegno, motivazione, coraggio e competenze tecniche.

Fattori
E infine, alla domanda, sempre a scelta multipla “quale dei seguenti elementi rappresenta meglio la tua intenzione rispetto al tuo futuro lavoro?” il 74% ha scelto “Fare quello che mi appassiona”.

Intenzione

Questi risultati ci colpiscono perché tratteggiano una visione del futuro che non è di passiva accettazione, né di de-responsabilizzazione, ma piuttosto il contrario: vogliamo fare quello che ci appassiona e sappiamo che per farlo è necessario un livello alto di motivazione e un grande impegno. Fattori come la ricchezza, i contatti e la fortuna, sono in secondo piano e non sono quelli decisivi.

 

5. Non vedono l’ora di imparare davvero

Infine, come ultimo punto di apprendimento emerso da questo percorso, condividiamo i risultati di un’attività che abbiamo proposto alle classi, sempre appartenente alla Theory U. Tra i vari strumenti di questa ampia metodologia, troviamo il Social Presencing Theatre, una pratica che usa semplici posture e movimenti del corpo per accedere all’intuizione e rendere visibile la realtà attuale e i punti di leva più profondi – spesso invisibili – per creare profondi cambiamenti. In un esercizio chiamato “Mappa 4D” gli studenti hanno rappresentato, attraverso una scultura collettiva, i vari soggetti coinvolti nel passaggio dalla formazione al lavoro (la scuola, l’università, la famiglia, i ragazzi, le imprese economiche, le amministrazioni, il Parlamento, l’Europa, il web, la TV, l’ambiente, la cultura, gli studenti, il lavoro, etc..). Tra le tante cose emerse – e veramente ne emergono tante da un semplice, eppur potente, esercizio così – vale la pena raccontare come è stato rappresentato il ruolo della scuola e il dibattito che ne è emerso in fase di debriefing.

La scuola è stata spesso rappresentata come un soggetto ai margini del sistema sociale, talvolta in ginocchio e sempre a testa bassa, disconnessa dagli altri soggetti. Quando, come secondo step dell’esercizio, si chiedeva al gruppo di rappresentare, attraverso una seconda scultura, il miglior futuro possibile del sistema, la scuola si legava ad alcuni soggetti chiave, in particolare le imprese, il web e l’ambiente, per raggiungere i ragazzi e fare da ponte tra loro e il lavoro.

Dopo l’esercizio, con due classi in particolare, il dibattito che ne è seguito è stato molto ricco: si sentiva una rara apertura e molta passione per quello che stava emergendo. Il punto fondamentale di frustrazione per loro era la mancanza, o meglio, il livello non sufficiente di momenti pratici presenti nei loro studi. In generale soffrono le tante ore dedicate alla teoria e riconoscono che spesso i professori non hanno esperienza diretta, come professionisti sul campo, in quella materia, ma insegnano solo la parte teorica perché loro per primi si sono formati sui libri di testo.

Quando gli studenti incontrano le aziende, durante lo stage o nelle prime esperienze di lavoro, si rendono conto che mancano loro proprio le basi e si sentono incapaci di fare qualsiasi cosa.

E mentre si raccontavano, emergeva con forza la voglia di arrivare a quel momento, al confronto col lavoro vero.


Questi punti rappresentano sinteticamente quelli che sono i primi apprendimenti raccolti lungo il percorso di Sistema Quartiere.

A partire dal prossimo ottobre, accoglieremo ad Impact Hub altre scuole e continueremo a condividere le nostre scoperte e il racconto della nostra l’esperienza.

Vorremo utilizzare questa, e altre opportunità, per incontrare persone, anche al di là del quartiere, interessate al tema del delicato passaggio dalla formazione al lavoro. Siamo consapevoli che i problemi complessi non possono essere risolti da un unico attore del sistema, ma richiedono che si diffonda la consapevolezza dell’interdipendenza tra i vari soggetti. Per questo, il primo passo è dare vita a delle conversazioni di senso.

Questo articolo è un primo contributo. Ne seguiranno altri e, a questi, si affiancheranno incontri ed eventi dedicati.

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